La piazza su cui si affaccia la Chiesa dei Santi Ambrogio e Simpliciano a Carate Brianza è da secoli il fulcro del paese. Leggendo questo articolo avrai l’opportunità di conoscere i momenti più significativi della sua storia e scoprire segreti e curiosità su Villa Tagliabue Buttafava Rossi, antica residenza che si affaccia proprio sulla piazza.
Tutto quello che ti serve sapere
La piazza della chiesa di Carate Brianza: “il corpo della terra”
In passato, quando le strade non avevano ancora un nome specifico, la piazza della chiesa di Carate era denominata “il corpo della terra”. Essa rappresentava il nucleo del borgo, da cui partivano tutte le strade che consentivano di raggiungere i paesi vicini.
Nel XVIII secolo, ai tempi di Maria Teresa d’Austria, qui erano soliti radunarsi – convocati dal rintocco del campanone – i capifamiglia che dovevano prendere parte al Convocato Generale (il Consiglio Comunale di quei tempi).
La torre dell’acquedotto
Nel 1826 la piazza accolse la torre del primo acquedotto comunale di Carate, costruita su progetto dell’ingegner Bonomi.
Questa novità rappresentò un evidente e significativo progresso per il paese: fino a quel momento, infatti, i caratesi per avere l’acqua avevano potuto fare riferimento solo ai pozzi delle corti contadine e delle ville (soprattutto nella parte alta del borgo, vicino alla chiesa, poiché in quella zona era garantita una buona disponibilità di acqua sorgente a una profondità modesta). Nelle corti in cui non c’erano pozzi, invece, si poteva utilizzare unicamente l’acqua piovana raccolta nelle cisterne… sperando che piovesse!
L’acquedotto installato in piazza non aveva un impianto di distribuzione né una vasca di riserva. I caratesi che – secchi in mano – raggiungevano la torre per fare rifornimento si servivano di un impianto di carrucole e verricelli grazie a cui l’acqua veniva pescata direttamente dalle falde e sollevata.
Carate Brianza e Gian Domenico Romagnosi
In quegli anni, la piazza della chiesa di Carate era frequentata da un personaggio illustre: Gian Domenico Romagnosi, caratese “acquisito”.

Giurista, economista, insegnante e filosofo, Romagnosi visse a Carate nella casa che oggi si trova al civico 5 di via Damiano Chiesa, la strada che dal portone di Villa Cusani Confalonieri conduce in via Dante Cesana.
Questa strada all’epoca di Romagnosi era chiamata vicolo della Rosa: qui sorgeva – all’incrocio con vicolo degli Angeli – un’osteria la cui insegna raffigurava proprio una rosa.
L’abitazione che accoglieva Romagnosi era casa Azimonti: la dimora del milanese Luigi Azimonti, un ricco commerciante di coloniali che aveva ereditato quell’immobile da suo zio, don Giacomo Colciago, prevosto della Collegiata di Sant’Ambrogio a Carate tra il 1784 e il 1803.
Romagnosi frequentò questa casa a partire dal 1822, quando aveva già superato i sessant’anni di età.
Dopo essere finito in carcere ed essere stato sottoposto a processo con l’accusa di aver fatto parte della Carboneria, era stato assolto anche grazie alla sua brillante autodifesa; tuttavia gli era stato vietato l’insegnamento, vale a dire la sua principale fonte di sostentamento. Aveva trovato ospitalità, dunque, nella casa di Azimonti, il quale – con la scusa di affidargli delle consulenze di carattere legale – badava anche al suo mantenimento.
“Tutto preso dai suoi studi – ha raccontato lo storico caratese Germano Nobili nel libro Per le antiche contrade – Romagnosi non si preoccupava di conoscere il valore del denaro e non si curava molto della sua persona”, tanto che “quando si trattava di fargli indossar qualche indumento nuovo si inquietava”.
Per i caratesi che passeggiavano in piazza e tra le vie del borgo, comunque, la figura del filosofo divenne ben presto familiare: un anziano dal portamento maestoso e imponente, con un “viso dolce al quale l’alta fonte stempiata dava un aspetto venerabile”, e con mani che si diceva fossero bellissime, al punto che – si legge nel libro “Per le antiche contrade” – “si vantava di non lavarle mai perché la morbida pelle non si guastasse”.
A passo lento, con la gamba destra claudicante, Romagnosi era solito passeggiare lungo i viottoli o tra i campi di Carate, non disdegnando di fermarsi a conversare amabilmente con i contadini del posto.
Nella piazza della chiesa, nel periodo in cui erano in corso i lavori per costruire la torre e il pozzo comunale dell’acqua potabile, aveva l’abitudine di fermarsi a guardare con interesse il meccanismo con contrappeso che era stato progettato per il sollevamento dell’acqua.
In altre occasioni, il filosofo lasciava il centro di Carate per raggiungere Realdino in compagnia di Angiolino Castelli, suo domestico e segretario, e osservare i lavori di ripristino dell’antico ponte in legno sul Lambro che era stato distrutto da una piena del fiume.
Al termine delle sue giornate, dopo aver cenato, Romagnosi si concedeva partite a tresette insieme con l’agente comunale Galeazzo Meregalli, il sacrestano Teodoro Formenti e il vecchio fattore di casa Azimonti, Angelo Maria Sirtori. Quando perdeva, si alterava (e non poco!): per questo i suoi compagni di gioco tendevano a lasciarlo vincere, così da non comprometterne l’umore.
Uno dei più cari amici di Romagnosi era Alberto Cerri, il medico di Carate, che era proprietario di una vigna all’Orlanda e che ogni anno gli regalava una bottiglia del suo vino.
Spesso invitato alle feste o ai convegni che si tenevano in Villa Cusani Confalonieri, Romagnosi si faceva apprezzare dai presenti per la sua eccezionale erudizione, stupendo gli interlocutori per memoria ed eloquio straordinari. A gradire la sua presenza erano anche le dieci figlie del proprietario di casa, il marchese Carlo Cusani Confalonieri.
A partire dall’autunno del 1834, Romagnosi lasciò Carate: essendo peggiorate le sue condizioni di salute, si era reso indispensabile rientrare a Milano.
A febbraio del 1835 egli rimase allettato. Da allora, non si alzo mai più.
Gian Domenico Romagnosi morì la notte dell’8 giugno del 1835, assistito dai suoi amici più cari e dai suoi discepoli. Una delle sue ultime volontà fu quella di essere seppellito a Carate.
Così, all’una di notte del 10 giugno del 1835, partì da Milano la scorta che avrebbe portato in Brianza la salma di Romagnosi, composta da tre carrozze: una con la bara, una con la commissione sanitaria e i sacerdoti e una con cinque amici.
Alle prime luci dell’alba, il corteo giunse a Carate e si fermò nella piazza della chiesa, accolto dalla popolazione che si era radunata per le strade.
La salma di Romagnosi fu benedetta dal parroco di Carate, don Carlo Dugnani; dopodiché le carrozze ripartirono e proseguirono in direzione del piccolo cimitero della via del Pozzone (oggi via Nazario Sauro).
Il nuovo pozzo
Nel 1884, a pochi passi dalla piazza, nell’area comunale situata fra il palazzo municipale e la stazione del tramway (dove poi sarebbe stato costruito l’Asilo Santa Maria), fu realizzato un nuovo pozzo.

Trovare il posto per costruirlo fu molto più complicato del previsto: altri spazi ritenuti più adatti non risultarono disponibili perché i rispettivi proprietari si rifiutarono di cederli.
Per esempio, il conte Confalonieri non concesse di utilizzare un’area che si trovava a pochi passi dalla piazza della chiesa (all’incrocio tra le attuali via Dante Cesana, via Damiano Chiesa e via Gian Domenico Romagnosi), adducendo come giustificazione il “rumore di voci e tante volte di canti” che sarebbe derivato dal radunarsi di persone intorno al pozzo: ciò avrebbe rappresentato “non lieve disturbo ed incomodo” per gli ospiti del “poco distante palazzo del signor Conte”, “sia nelle prime ore del mattino, sia durante l’intera giornata”.
L’illuminazione elettrica a Carate Brianza
Nel 1901 la torre dell’acquedotto in piazza fu rinnovata con l’aggiunta di un sopralzo, grazie a cui poté essere collocato nella parte superiore un serbatoio di riserva, fondamentale per la nuova rete di distribuzione; nell’occasione venne installato anche un impianto elettrico per pescare e sollevare l’acqua.
Nella torre si realizzò anche la centralina per l’illuminazione elettrica delle vie di Carate, che sostituì le lampade a gas; l’elettricità proveniva dalla centrale della ditta Staurenghi (una ex filatura trasformata in mobilificio), che funzionava grazie alla forza motrice delle acque del Lambro.
Villa Tagliabue Buttafava Rossi
Per completare il romanzo della piazza di Carate non può mancare una menzione per Villa Tagliabue Buttafava Rossi, che “col suo monumentale cancello è parte integrante della scenografia architettonica che, facendo perno sul monumento a Sant’Anatalone, fa da corona alla piazza” (parole di Germano Nobili).

Un tempo la villa apparteneva alla famiglia milanese Tagliabò (o Tagliabue), presente a Carate sin dal Trecento.
I Tagliabue, nella località affacciata sul fiume Lambro che ancora oggi è conosciuta come Mulino Tagliabue, fino alla metà del Settecento mantennero privilegi feudali sui pigionanti e sui massari che si occupavano delle loro terre e, appunto, del loro mulino.
Nel corso dei secoli, alcuni esponenti della famiglia caratese vennero nominati causidici collegiati: erano, in pratica, avvocati difensori che, pur non essendo laureati, si potevano occupare di piccole cause.
Altri Tagliabue, invece, intrapresero la carriera ecclesiastica: per esempio don Annibale Tagliabue, che fu prevosto di Agliate al tempo in cui Carlo Borromeo era arcivescovo di Milano; e don Ambrogio Tagliabue, che fu parroco di Carate tra il 1565 e il 1604. Ma, a dir la verità, secondo quanto raccontato da Germano Nobili, i Tagliabue “non erano molto portati alle rinunce e ai sacrifici che la vita religiosa richiede”.
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L’ultimo esponente della famiglia fu Carlo Lucido Tagliabue, che nel 1760 rinnovò la residenza di famiglia con la costruzione della porzione di villa in stile barocchetto lombardo che attualmente si affaccia su via San Giuseppe e l’erezione di una piccola chiesetta, intitolata – appunto – a San Giuseppe.
Accanto all’edificio sacro, all’epoca c’era una stradina che portava alla corte rurale (poi diventata nota come corte Vergani) in cui vivevano il personale di servizio della villa e i contadini che lavoravano nei campi dei Tagliabue.
I contadini con i loro carri, però, non potevano utilizzare questa strada, che era destinata unicamente all’accesso alla villa; dovevano, invece, percorrere una strettoia ricavata al confine del giardino che passava per l’odierna via Claudio Cesana.
Alla fine del Settecento, i sanculotti della Repubblica Cisalpina – seguendo ciecamente i principi di libertà ed eguaglianza di cui si facevano portatori, e spinti dalla loro avversione nei confronti dei nobili – raggiunsero l’Oratorio di San Giuseppe e rimossero le insegne nobiliari delle tombe di famiglia dei Tagliabue. A farne le spese fu anche quella di Carlo Lucido, che era morto nel 1776.
Successivamente, la villa passò alla famiglia Buttafava, che contribuì a dare alla piazza di Carate l’aspetto che ancora oggi possiamo osservare.
Nel 1880, infatti, Isabella Mangiagalli, vedova del nobile Gerolamo Buttafava, fece completare a proprie spese la facciata della Chiesa dei Santi Ambrogio e Simpliciano, che fino a quel momento era rimasta incompiuta. Il prospetto, disegnato dall’architetto Carlo Colombo, fu impreziosito da un affresco sul frontone, La benedizione dei fanciulli, realizzato dal pittore Luigi Bianchi.

Nel 1909 la demolizione di un vecchio edificio all’angolo tra la piazza della chiesa e via San Giuseppe consentì di aggiungere alla villa la portineria con il cancello di ingresso, mentre il giardino incorporò l’antica strada di accesso alla villa accanto all’Oratorio di San Giuseppe.
La vecchia corte rurale, a sua volta, fu rinnovata con la costruzione di un caseggiato a tre piani dotato di grandi loggiati (dove i contadini appendevano il granoturco). Nel cortile più interno si realizzarono i letamai, i gabinetti, le stalle, le cascine e i portici per il ricovero dei carri e degli attrezzi agricoli; furono ripristinati, inoltre, il pozzo con verricello e il forno per il pane.
Successivamente, sia la villa che la corte rurale andarono incontro a diversi passaggi di proprietà, venendo cedute prima alla famiglia De Herra, poi alla famiglia Tanzi e infine alla famiglia Rossi.
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Per approfondire la conoscenza delle vicende storiche di Carate Brianza, puoi consultare il libro di Germano Nobili Per le antiche contrade.
